Teorie e Metodologie sul Knowledge Management

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Patrizia Cinti

Il tema del knowledge management è legato, in modo indissolubile, alle parole cambiamento, sviluppo e innovazione.

Nel passato, non sempre conoscenza e sviluppo sono stati considerati reciproci e connessi; in parte, per alcune visioni tradizionali del sapere e dello sviluppo, non è ancora del tutto così. La conoscenza, e quindi la sua gestione, sono stati pensati per molto tempo solo come una modalità di possesso, di esercizio del potere di chi sa su chi non sa o, meglio, deve sapere poco. Uno strumento di separazione, subordinazione e restringimento di libertà esercitato da una minoranza dominante su una maggioranza considerata subalterna.


L’aspetto più interessante del knowledge management è proprio questo: aver compreso e dimostrato che, nei vari livelli sociali, il potere fondato dal possesso della conoscenza è inferiore alla autorità generata dalla condivisione della conoscenza. Ed è interessante constatare che un ambito del più ampio sistema sociale nel quale questo principio è stato applicato sia quelle delle organizzazioni aziendali, finalizzate alla produzione di beni e servizi per la vendita e, in ultima analisi, al profitto.

Sul carattere strategico della conoscenza per le organizzazioni aziendali esistono ormai molti elementi di certezza e da problema racchiuso e riservato in pochi spazi dell’organizzazione (quali le funzioni aziendali di Ricerca e sviluppo o le stanze del top management), si è affermata la consapevolezza del suo carattere pervasivo e sistemico, dentro e fuori l’organizzazione, in relazione con l’ambiente in cui opera e compete (Nonaka e Takeuchi, 1995). A partire dalla metà degli anni novanta, nella letteratura manageriale anche più divulgativa, molte sono state le affermazioni a riguardo: per Thurow (1996) «oggi la conoscenza e le capacità sono l’unica risorsa per il vantaggio competitivo»; per Leonard-Barton (1995), oggi «le imprese competono sulla loro abilità di creare e utilizzare la conoscenza»; per Stewart (1997), che tra i primi ha scritto articoli divulgativi sull’argomento sulle pagine di Fortune, «l’informazione e la conoscenza sono le armi termonucleari competitive del nostro tempo»; per Edvinsson (Corporate Director of Intellectual Capital nella Skandia, una delle imprese più citate) e Malone (1997) nelle relazioni annuali sullo stato delle imprese la valutazione del Capitale Intellettuale sostituirà presto per importanza quella sui bilanci.

Per questo, parlare di knowledge management come una questione solo interna alle organizzazioni o come una delle tante soluzioni organizzative rischierebbe di non aiutarci a comprendere bene la portata di questo approccio innovativo, che segue quelli altrettanto fortunati dentro le imprese della Learning organization, del Business process re-engineering o della Total quality, dai quali ha ereditato molto.
In ogni caso, le organizzazioni che adottano in modo consapevole sistemi di knowledge management  sanno che non cambiano solo le modalità organizzative interne prescelte per la realizzazione del risultato atteso: ciò che si modifica è, da un lato, la concezione stessa dell’organizzazione, che da chiusa accetta di diventare disponibile agli scambi con un contesto sociale ampio (la rete di relazioni con soggetti singoli e collettivi con i quali condividere la conoscenza posseduta) e, dall’altro, la considerazione stessa delle persone che compongono l’organizzazione, che ne diventano il capitale umano.

Il knowledge management allora non si potrebbe comprendere se non si tenessero insieme tre aspetti differenti ma integrati dello stesso problema:

  1. la nascita della Società della conoscenza (Druker, 1993; Nonaka, Takeuchi, 1995; Von Krog et al., 2000; Thurow, 1996) e la globalizzazione economica e sociale
  2. la crescita delle competenze (conoscenze, capacità, atteggiamenti) dei knowledge workers(Butera et al. 1997: Butera et al. 2008)
  3.  la progettazione di modelli organizzativi centrati sulla condivisione piuttosto che sulla separazione dei saperi (taciti ed espliciti).

Negli ultimi anni, il pensiero organizzativo ha prodotto molte teorie e relative metodologie sul problema della gestione delle conoscenze in un ambito organizzativo. Questo filone di studi e lavori empirici si è man mano differenziato in tre linee (Cinti, 2003), che hanno posto come focus o la cura del capitale intellettuale, o la formulazione di corrette scelte strategiche, o la innovazione dei processi.

Con maggiore dettaglio, le tre viste affermano che:

  • (capitale intellettuale) gestire la conoscenza significa gestire il capitale intellettuale di una organizzazione, ovvero le persone e le loro competenze (Bennis, Ward Biederman, 1997; Edvinsson, Malone, 1997; Glynn, 1996; Stewart, 1997; Sveiby, 1997; Stoy e Sveiby, 2007)
  • (scelte strategiche) il sistema di gestione della conoscenza deve essere realizzato scegliendo in modo strategico cosa è rilevante e prezioso per l’organizzazione, ovvero quali sono le competenze principali (core competencies) da potenziare e sviluppare e sulle quali investire la maggior parte del tempo e delle risorse economiche (Hamel, Prahadal, 1994; Leonard-Barton, 1995; Prahadal, Hamel, 1990; Quinn, 1992; Quinn et al., 1996)
  • (innovazione dei processi) la gestione della conoscenza significa gestire i processi che ne permettono la realizzazione, da realizzare anche con l’ausilio di tecnologie per la comunicazione e la cooperazione tra le persone (Bohn, 1994; Davenport et al., 1996; Davenport, Prusak, 1998; Nonaka, Takeuchi, 1995).

Appare evidente che le tre viste non sono affatto alternative, ma occorre evidenziare fin da subito che la scelta di quale privilegiare come punto di partenza rispetto alle altre non è indifferente e priva di significato e conseguenze: quindi scegliere come strategia quella di curare il capitale intellettuale significa investire principalmente nella gestione e sviluppo delle persone, fare azioni di empowerment nelle organizzazioni (Bruscaglioni, Gheno, 2001), pianificare le attività formative dentro e fuori l’organizzazione, fare un patto nuovo con i collaboratori, garantendo la valorizzazione e la visibilità del loro contributo alla produzione della conoscenza. Invece, puntare sulle core competencies da sviluppare implica assegnare ai manager la responsabilità di individuare le strategie da perseguire, accettando anche una dicotomia tra competenze chiave e competenze meno significative per la catena del valore, fino a dividere nell’organizzazione i knowledge workers dagli addetti reputati meno innovativi. Infine, centrare gli interventi sull’innovazione di processo significa prima ridisegnare le attività per poi assegnarle alle persone, rischiando di individuare nella soluzione tecnologica (tecnologie per la cooperazione, forum, intranet, banche dati condivise, mailing list, ecc.) la via breve per il knowledge management.

In ogni caso, gli approcci sul knowledge management e le diverse proposte metodologiche rispecchiano una dicotomia che taglia spesso in due la comunità scientifica che discute di organizzazioni e di management per lo sviluppo: da un lato ci sono coloro che propongono come soluzione le modifiche alle strutture o le tecnologie da utilizzare per le knowledge organization; dall’altro ci sono coloro che privilegiano una vista sui processi necessari per la creazione della conoscenza e sulle competenze indispensabili che devono essere possedute dalle persone che operano in una organizzazione basata sulla conoscenza condivisa.

In realtà, come sostenuto dai teorici della scuola sociotecnica, aspetti sociali e tecnologia sono uniti e indivisibili nella realtà delle organizzazioni: qualsiasi organizzazione cerca di perseguire i propri obiettivi (economici, tecnici e sociali) realizzando processi di lavoro, utilizzando tecnologie, curando la gestione e lo sviluppo delle persone, disegnando strutture organizzative. Ma ribadiamo che nel knowledge management, come in ogni altro approccio, ci sono comunque diverse metodologie di intervento che privilegiano prima gli aspetti strutturali e tecnologici e poi quelli processivi e legati alle persone; altri viceversa.
Intanto, le imprese definite knowledge organization sono in crescita esponenziale; in esse gli Intangible Assets (conoscenze e competenze degli addetti, relazioni con i clienti, ecc.) crescono più velocemente dei Tangible Assets (prodotti, brevetti, tecnologia,ecc.), in ogni settore economico (Sveiby, 1997).

Il knowledge management ha implicazioni sull’organizzazione nella sua interezza, come sistema sociale, tecnico, economico. Quali che siano le metodologie e le tecnologie prescelte, si generano cambiamenti sull’organizzazione macro e micro, sui sistemi delle professioni, sui sistemi di gestione, sulle carriere, sulle attività formative, sullo stesso contesto sociale.

Un dato sul quale occorre comunque riflettere è la non travolgente affermazione del knowledge management, così la consapevolezza della rilevanza della gestione della conoscenza è ormai diffusa, ma non altrettanto lo sono le attività dedicate a realizzarlo e svilupparlo.

Come detto, il dibattito sul knowledge management ha presto superato gli ambiti delle aziende e delle scuole di formazione manageriale per estendersi al più ampio livello del sistema sociale. In particolare, in Europa questa strategia è presente da tempo nelle azioni dei decisori politici della Svezia in particolare, nel loro sostegno e sollecitazione alla comunità di pratica di imprenditori e studiosi che hanno animato il dibattito nazionale sulle implicazioni del knowledge management.

Ma questi argomenti diventano per l’Europa, in modo definitivo, aree problematiche per lo sviluppo socio-economico all’interno dei documenti della Strategia di Lisbona (marzo 2000), che acquisisce in modo formale la definizione di Società della Conoscenza per l’Europa del nuovo millennio. Negli anni successivi, la denominazione nei documenti europei si è consolidata in Società della conoscenza e dell’apprendimento, fino all’avvio di Europe 2020: A strategy for smart, sustainable and inclusive growth.

Rispetto all’Agenda di Lisbona, che ha visto vanificati molti degli obiettivi predefiniti a seguito della crisi finanziaria di inizio millennio, Europe 2020 delinea tre priorità nei documenti ufficiali:

  • crescita intelligente: sviluppare un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione
  • crescita sostenibile: promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva
  • crescita inclusiva: promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale.

Pertanto, in Europa e nei contesti internazionali in genere la gestione della conoscenza diventa una priorità per lo sviluppo, con la nascita di progetti complessi, che richiedono competenze e strutture organizzative dedicate.
Ma di nuovo si pone il problema della scelta di quale modello organizzativo privilegiare per un sistema di knowledge management adatto allo sviluppo sociale.

Possiamo individuare tre sistemi organizzativi di knowledge management e tre relative strategie:

  • un sistema di tipo tecnologico
  • un sistema di tipo strutturale
  • un sistema di tipo ecologico e sistemico

Nel sistema di tipo tecnologico l’enfasi è posta sulle tecnologie per la comunicazione e gli investimenti principali vengono rivolti alle infrastrutture tecnologiche. É evidente che questo tipo di approccio può avere come effetto quello di escludere paesi e comunità in via di sviluppo o con poche possibilità di sviluppo tecnologico, avviando un circolo vizioso che potenzia in primo luogo le economie tecnologicamente più avanzate.

Nel sistema organizzativo di tipo strutturale l’enfasi si concentra sulla progettazione di strutture organizzative complesse, delle quali la letteratura scientifica da tempo evidenzia i rischi di burocratizzazione, quindi di concentrazione verso l’alto dei sistemi di direzione top down. In questo caso, anche in presenza di una stabilità certa, il rischio è quello della costruzione di strutture autoreferenziali, esclusive e non permeabili con il sistema sociale.

Nel sistema di tipo ecologico e sistemico la centralità viene posta sulle persone e sulla rete delle loro relazioni sociali, sulle loro competenze specialistiche e trasversali, non ultime quelle di tipo comunicativo, collaborativo e cooperativo. In questo approccio le strutture organizzative risultano più flessibili e le azioni degli attori si diffondono con più facilità nei sistemi sociali, anche fuori dalle comunità di pratica degli esperti o quelle dei decisori istituzionali. Ma come noto, centrare un modello organizzativo sulle persone ha un suo punto debole, che occorre presidiare costantemente: quello di dipendere dalla singola persona, quindi di essere vulnerabile se la stessa persona non agisce rispetto al risultato atteso coordinandosi con altri. Per questo, nella letteratura organizzativa viene da alcuni autori proposto il concetto di ruolo agito come nodo centrale di un sistema di tipo ecologico e sistemico, composto dall’azione congiunta di tre elementi: ruolo formale, ruolo professionale e, appunto, persona (Butera et al., 2009; Cinti, 2011).

Qualsiasi sia la metodologia prescelta, un errore da evitare è quello di pensare che le persone, comunque messe insieme, cooperino e comunichino in ogni caso: il knowledge management, come ogni sistema organizzativo, è un’attività di costruzione, tutela, sviluppo delle relazioni sociali, realizzata in modo intenzionale, poiché “tutti sanno contare le mele una volta cresciute”, ma decisivo e strategico è sviluppare un sistema di conoscenza di base alle radici per determinare come i frutti si svilupperanno (Edvinsson, Malone, 1997).

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